È il 29 giugno del 1930. Si affrontano l’Associazione Sportiva Ambrosiana (l’Inter, con il nome impostogli dal fascismo ché Internazionale a un’eco troppo socialista) e la Juventus, in lotta per lo scudetto.
È il primo campionato a girone unico della storia ed è la penultima giornata.
All’andata i nerazzurri avevano espugnato per 2-1 lo Stadio di Corso Marsiglia di Torino. A San Siro (inaugurato quattro anni prima) i nerazzurri si impongono sui bianconeri per 2-0 grazie alle reti di Gipo Viani e di Leopoldo Lodovico Conti e vincono il tricolore, il terzo nella loro storia.
A guidare quella squadra, colui il quale in seugito vedrà lo stadio di San Siro dedicato, Peppino Meazza: non ha nemmeno 20 anni (li compirà ad agosto) ma porterà i nerazzurri al titolo realizzando 31 reti in 33 gare.
In panchina un allenatore ungherese, Árpád Weisz, già giocatore dell’Inter nella stagione 1925/26.
È grazie alla sua intuizione (e al suggerimento dell’ex attaccante Fulvio Bernardini) se Meazza sarà subito aggregato tra i “grandi”.
Ma torniamo a Weisz.
Nel 1926, dopo un breve periodo da vice di Augusto Rangone ad Alessandria (dove aveva militato anche da calciatore), gli viene affidata la panchina dell’Inter e dopo un quinto e un settimo posto viene allontanato per una stagione (sotituito dal connazionale József Viola) per poi tornare e portare la squadra al succitato scudetto.
A 34 anni diventa così il più giovane allenatore straniero ad aver mai vinto la Serie A (primato che resiste ancora – il primato assoluto appartiene al trentatreenne Armando Castellazzi, vincitore dello scudetto vinto dall’Ambrosiana Inter nel 1938 e già mediano al servizio di Weisz).
Come testimoniato dal cambio di nome della Beneamata, sono gli anni del fascismo, ma nonostante sia stato costretto ad italianizzare il nome in Arpad Veisz può continuare la propria carriera e nel gennaio 1935 diventa allenatore del Bologna di Renato Dall’Ara (un altro uomo cui verrà poi intitolato uno stadio): alla seconda stagione conquista il suo secondo titolo da tecnico e l’anno seguente bissa con i felsinei, conquistando frattanto nel 1937 un trofeo internazionale (il Trofeo dell’Expo di Parigi, battendo in finale per 4-1 il Chelsea).
Weisz è a tutti gli effetti uno dei migliori allenatori in circolazione. Ha capito che la strada per far esplodere definitivamente il giuoco del pallone è il professionismo (in tal senso, è un precursore di tanti trend – come la cura della dieta dei calciatori) ed ottiene una serie di primati (oltre al succitato ancora insuperato a distanza di quasi un secolo, è il primo allenatore a vincere lo scudetto e l’unico ad averl vinto schierando soli 14 giocatori) ma nonostante ciò viene colpito dalle infami leggi razziali.
Ebreo, viene costretto ad abbandonare il Paese nel 1938, giacché giunto nel Bel (allora un po’ meno) Paese dpo il 1919.
Divenuto d’un tratto israelita di nazionalità straniera, è costretto a scappare fino a trovare rifugio a Dordrecht, nei Paesi Bassi.
Ivi riprende la sua attività d’allenatore (alla guida del Dordrecht, che grazie a lui crebbe sensibilmente) ma le cose si mettono male anche nel resto d’Europa: la Germania nazista occupa anche i Paesi Bassi, Weisz viene licenziato e nell’agosto del 1942 arrestato dalla Gestapo.
Deportato alla volta di Auschwitz (dove la moglie Elena e i figli nati in Italia Roberto e Clara vengono subito condotti alle camere a gas), viene dapprima costretto ai lavori forzati, per poi essere ricondotto nel lager ed ucciso, il 31 gennaio del 1944.
Una storia tremneda, da ricordare nel Giorno della Memoria.
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